testi critici

Francesca Agostinelli
Per Juliet, aprile maggio 2005

Da tempo Aldo Ghirardello (Vicenza 1963) ci accomoda sulla bellezza corporea. Indagata nel suo fascino, nella sua sensualità. Esibita con figurazione nuova nel rigore di una rassicurante perfezione, ottenuta con sapiente e pervicace analisi di modelli che percorrono l'intera storia della bellezza.

Nessun disturbo, anzi è un piacere questa pittura autoreferenziale, fatta di "Rifigurazioni" (2001), "Corpi sensibili" (2003), "Come tu mi vuoi" (2004); che espia il peccato di accondiscendere con una implicita sua vocazione al sacrificio. Che consiste nella silenziosa partecipazione ad un mondo, quello dell'immagine contemporanea, nel suo stereotipo incline alla perfezione, alla moltiplicazione e, infine, all'espiazione catartica dello scarto.

Il nostro ruolo, nella pittura di Ghirardello è voyeuristico. Siamo cioè osservatori compiacenti e compiaciuti. Se superficiali.

Altrimenti siamo criticamente partecipi di questo flusso in cui tutto irrimediabilmente scorre e si consuma, anche i corpi, anche la bellezza. E cogliamo l'insinuazione di Ghirardello, che ora più che mai, con toni sottili quanto affilati perpetra lo scasso di ogni parametro certo, per compiere il balzo che dall'evidenza del sembiante conduce alla sostanza. Implicando con più definizione un aspetto sociologico da sempre subliminale alla sua ricerca.

E allora siamo tutti presi dentro. Perché Ghirardello in questo ricercare attinge oggi a riferimenti nuovi, che indagano corpi di una generazione largamente rappresentata: la nostra.

Ghirardello si concentra su un mosaico di presenze che costituiscono corollario alla sua identità, facile a trasformarsi in esistenza con un gioco sul tempo che si fa dolce e duro, talora struggente. Risale al vissuto infantile e lo connette alla sua, alla nostra generazione. Quella del boom economico, della prima automobile, delle vacanze al mare e delle feste di compleanno con la torta fatta in casa e il vestito buono. Cucito. Un vissuto personale e generazionale riesumato attraverso l'immagine fotografica degli album di famiglia. Dove siamo tutti in posa, nella stessa posa, con la stessa inquadratura, mentre celebriamo situazioni medesime che ciascuno ritiene uniche e importanti: la recita, la comunione, la vacanza, il viaggio con la prima macchina familiare. Al mare, ai monti, tra papà e mamma. Con i nonni mentre sorridiamo artificialmente con il sole negli occhi e la riga all'uopo, fresca di pettine.

Ghirardello in sostanza volge all'immagine dei nostri corpi, abbandonando le strade maestre dei grandi riferimenti storici che avevano nutrito la precedente sua ricerca. Percorre piuttosto i sentieri in cui la certezza del riferimento aulico si è disperso, a creare piccoli stereotipi non più sostenuti dalla professionalità di tecnici deputati al mestiere, ma creati dalla veduta affezionata di papà, zii cui l'affacciarsi dell'era tecnologica e dell'immagine, connessa al boom economico, hanno messo in mano, per la prima volta in modo diffuso, le macchine da ripresa.

Ed ogni brano pittorico di Ghirardello questo racconta: una generazione chiusa nei confini di presuntuosi rettangolini di carta. Che pretendono imprigionare la vita nella sua frammentaria rappresentazione. Che con severità vogliono costringere in piccoli segmenti di superficie un fluire che in modo carsico affronta le profondità più segrete.

Ogni corpo dipinto pulsa allora, nella sua compassata e tecnicamente perfetta definizione, di una vita gonfia che impaziente conosce oggi la sua sotterranea direzione, conosce il faticoso aggiustamento con noi stessi che il tempo per ciascuno ha previsto.

Sui cartoni telati Ghirardello origina opere il cui valore individuale concorre alla definizione di una storia molteplice, e ancora una volta ricerca, analizza, seleziona seguendo un’ idea che partendo dalla rappresentazione conduca alla vita. Approfondendo il rimando nel ricercare l'identità che dall'apparenza conduca alla sostanza. Di noi, di quello che siamo e di come siamo stati indotti a guardarci, a riconoscerci, a sostanziarci nel ricordo attraverso lo sguardo vigile dei nostri padri e delle nostre famiglie, che ci avrebbero voluto ordinati, pettinati, abbottonati. Che ci avrebbero voluto insomma in una posa che al contrario abbiamo giudicato scomoda per viverci sopra una vita intera.

Francesca Agostinelli