testi critici

Fabio Belloni
2015-1990. Un tragitto., Aprile 2015
Conversazione tra Aldo Ghirardello e Fabio Belloni.

2015-1990. Un tragitto.
Conversazione tra Aldo Ghirardello e Fabio Belloni.

Questa mostra è quasi un evento: non è frequente vedere le tue opere esposte in pubblico. Ora invece ne presenti una selezione tratta da venticinque anni di attività, dipinti e installazioni dal 1990 a oggi. È la tua prima antologica.

Appartengo a una generazione di artisti che lavora costantemente, ma lo fa in modo discreto, sotterraneo. Direi addirittura clandestino. Dopo tanti anni avevo bisogno osservare alla giusta distanza i miei trascorsi, dovevo capire se qualcosa era rimasto in sospeso. Scegliere i lavori per questa occasione è stato un po’ come riordinare un cassetto ricolmo, in disordine. Una volta sistemato puoi passare ad altro, puoi aprire il cassetto successivo. La mostra e il suo catalogo certificano, a me per primo, che sono esistito. Il tempo non è passato inutilmente.

Chi la visita può rimanere stupito dalla varietà delle tue scelte espressive. Sono opere molto eterogenee tra loro…

Ho deciso di mostrare più linee di ricerca. In venticinque anni di lavoro è naturale – anzi doveroso – che un artista cambi. Deve sperimentare, percorrere strade diverse: a volte impreviste, altre anche sbagliate. Il fatto poi che gli ambienti di Palazzo Caiselli siano così articolati e diversi mi ha suggerito l’idea di presentare pezzi tra loro distanti per stile o cronologia. Di sicuro, in ogni caso, non sono mai stato monotematico: ho sempre assecondato tre o quattro ossessioni, quelle che d’altronde accompagnano l'esistenza di tutti. Aggiungerei una precisazione importante riguardo all’ambito culturale nel quale sono cresciuto, quello del Postmoderno. “Nomadismo”, “polistilismo”, “citazionismo”, “depistaggio”: questi concetti hanno rotto rispetto alla rassicurante continuità stilistica tanto amata dai critici e dal pubblico. E per me sono diventati una vera e propria pratica.


E tra queste ossessioni, quella della figura umana è la prima. Mi sembra il filo conduttore di tutte le tue fasi. Corpi di plastica, di ceramica, di pezza. Poi di carne, vestiti, nudi, dai colori smaglianti o in un bianco spettrale. Comunque quasi sempre anonimi.

Certo, questo è un punto fermo, dagli esordi a oggi. C’è il corpo esplorato a livello iconografico nel ciclo dedicato al kitsch religioso di inizio anni Novanta. Mi interessava recuperare le icone della pittura sacra: rivitalizzarle attraverso accostamenti inediti e ironici. Altre volte ho invece esaltato l’eco di artisticità che comunque si rivela anche nelle sorprese degli ovetti Kinder o nei vetusti soprammobili delle nonne. Poi è arrivata la serie dei “corpi sensibili”: figure naturalistiche immerse nel vuoto che però sembrano dilatarsi allo sguardo dell’osservatore. Sono monocromi percorsi da piccoli elementi grafici: disturbi visivi, interferenze per creare ambiguità spaziali. Diventano spaesamenti imprevisti.

Tutti i tuoi quadri, peraltro, sono dipinti a velature. È un dettaglio tecnico che nel tuo caso sembra caricarsi di un significato più profondo, metaforico.
La mia pittura procede per lenti passaggi sovrapposti: vuole rivelare non nel senso di svelare ma nel senso di velare due volte. Il primo velo è quello della pittura sulle cose, sui soggetti peraltro già mediati dai mezzi di comunicazione e di riproduzione. Il secondo velo è quello della tappezzeria, uso cioè la trama della vernice trasparente che pongo con dei rulli decorativi. Alla fine, potrei dire anche io "questa non è una pipa". Questa non solo “non è una pipa”, ma non è nemmeno l'immagine di una pipa: attraverso l'effetto cangiante della trama decorativa, il soggetto scompare letteralmente allo sguardo e muta a seconda dal punto di vista. La percezione dell’immagine si complica, diventa intrigante.

Poi ancora c’è stata la serie delle “Epifanie”.

Raffigurano interni domestici, apparentemente innocui, che ho tratto da vecchie polaroid di famiglia. Più che una scena di genere, intendevo dipingere una fotografia: riprenderne lo stesso ingiallimento della superficie, anche la cornice bianca tipica di quelle immagini istantanee.

Intendevi anche riappropriarti degli umori, delle atmosfere di quegli ambienti. C’è forse qualcosa di voyeuristico in immagini del genere?

C’è anche, o forse soprattutto, questo. Ma mi interessava farlo emergere a un secondo sguardo: occorre rifletterci sopra, non deve arrivare subito. Sono partito da immagini molto personali, autobiografiche. Volevo riportare lo spettatore alle scene e alle attitudini tipiche della generazione cui appartengo, quella del boom economico, del tinello buono, dei lunghi incontri familiari, dei compleanni e delle pose compite davanti alle torte con candeline. Rituali che oggi mi sembrano persi. Rivederli riportano subito a un’atmosfera anni Sessanta-Settanta.

A proposito dei tuo repertorio: quello che stupisce è la difformità del materiale visivo. Da una parte figure fortemente autobiografiche: peschi dall’album di famiglia foto di un tempo andato. Rimandano immediatamente a un vissuto personale ma anche collettivo. Ti vediamo bambino insieme a tua nonna il giorno del compleanno, per esempio. Dall’altra parte, specie nei quadri più recenti, figure anonime scovate sulla rete. Volti maschili che esprimono un desolato senso di solitudine. In ogni caso, lo spettatore non sa nulla degli scambi, dei rapporti che ti legano con quelle figure, a meno che non sia tu a dichiararlo direttamente.
È un’osservazione che mi viene spesso rivolta. Anche nella serie Mutazioni il volto è sempre protagonista: allude a una ridefinizione dell'identità nel suo sdoppiarsi allontanandosi sotto ripetute velature di bianco e la traslucida trama decorativa che vela o, meglio, rivela una realtà sempre inafferrabile, sfuggente, ambigua. E per questo inquietante.

Altarino blu risale al 1990 e con questo dipinto si apre cronologicamente la mostra. I tuoi esordi però risalgono a molto prima.

Dipingo da sempre, da quando ero bambino. Mi sono formato negli anni Ottanta nello stesso Istituto d’Arte – il Sello – dove oggi insegno storia dell’arte. Aulo, Mario Baldan, Albino Lucatello sono stati alcuni dei miei docenti. Poi c’è stata Bologna, il Dams. Le lezioni di Eco, Caroli, Barilli, Camporesi, Calabrese rimangono per me indimenticabili. Francesca Alinovi, che aveva appena portato in Italia i graffitisti newyorkesi, era magnetica. La Transavanguardia attraversava il suo momento d’oro. A Bologna imperavano i Nuovi Nuovi di Barilli. Io risentivo di quell’ondata neopittorica. Dipingevo secondo un gusto neoespressionista: grandi quadri visionari, eccessivi, grondanti di colore.

Ricorri alle tecniche più varie – olio, tempera, acquerello, disegno – e fin qui nulla di strano: sono quelle di sempre, appartengono alla tradizione. Ciò che però mi sorprende è la volontà di snaturarle. Usi, per esempio, l’acquerello sulla tela. Poi vernici il tutto così che alla fine la superficie diventa smaltata. Chi osserva stenta a capirne la natura del quadro, la sua fattura.
La questione è semplice: amo sperimentare. Cerco formule non convenzionali pur partendo dagli strumenti più consueti. E poi chi guarda va messo in discussione, dinnanzi a un dipinto deve interrogarsi. Mi impegno a porre lo spettatore nella condizione del voyeur. Può sentirsi a disagio e insieme attratto dinanzi all’intimità di alcune scene. Mi riferisco soprattutto alla serie più recente, Spettri. A proposito, un amico mi ha fatto notare un aspetto interessante. La tecnica, ovvero, può diventare lo strumento per scrutare il mondo: uno spettro nel senso etimologico del termine, cioè strumento del guardare. E io sono molto, molto curioso. La pittura mi aiuta anche in questo: è il mio strumento di osservazione.


Udine, aprile 2015.